Il teatro degli Champs-Elysées dista poco più di un chilometro dall’Hotel Salomon De Rothschild, il palazzo che ha ospitato la collezione invernale dell’haute couture di Valentino. Nel primo, precisamente alla stessa ora dello stesso giorno, il Tanztheater Wuppertal metteva in scena lo spettacolo Néfes della grande e scomparsa coreografa tedesca Pina Bausch mentre nel secondo Pierpaolo Piccoli orchestrava l’atto finale della sfilata che chiude la quattro giorno di alta moda a Parigi. I due mondi, molto più lontani del chilometro che li separa, hanno in realtà un punto in comune: lo spettacolo travolgente, emozionale e senza filtri che regala chi impara a coniugare ispirazione, movimento e modernità sotto l’estro della libertà d’espressione di sé.
La modella Adut Akech in Valentino Haute Couture
Con uno show che ha scatenato una standing ovation (l’unica vista nella kermesse della couture a Parigi), Piccioli ha compiuto sulla passerella della moda quello che Bausch ha fatto col balletto contemporaneo: le ha dato un’espressività e una forza così umane e simboliche da lasciare tutti senza fiato. Come la coreografa, ha stravolto i movimenti, le perfezioni e le impostazioni dell’alta moda classica pescando dalla sua memoria, dalla sua tradizione per poi portarle altrove, lontano, in un territorio libero e senza freni.
Kaia Gerber in Valentino Haute Couture
Ogni look è puro teatro, come succede appunto con Pina Bausch: più che di abiti, si tratta di assoli, performance isolate senza un’ispirazione precisa, momenti di teatro che procedono in solitaria scrivendo capitoli diversi dentro un’unica storia. “Per la prima volta ho provato davvero a non pensare”, racconta Piccioli, “ho voluto procedere col cuore senza fissare un tema. Certo, ci sono la mitologia, il Rinascimento, il Settecento, i costumi di Piero Tosi, la Medea di Maria Callas e Pierpaolo Pasolini. Ma sono pezzi, memorie di un assembramento più ampio. A dire il vero, mi ha fatto molto pensare un video che abbiamo girato qualche mese fa in cui una nostra sarta ricordava di aver visto un abito fatto in atelier a una mostra al Victoria&Albert Museum di Londra. Disse che guardarlo era come vedere il padre che era scomparso proprio mentre lo realizzava, qualche anno prima. Ecco, io penso che la materia, soprattutto quella dell’alta moda ma più in generale di tutte le cose belle, assorba in qualche modo le emozioni e che queste in qualche modo la cambiano. La materia diventa così memoria e io mi sono sforzato proprio di ragionare in termini di memoria della couture e della bellezza, di come immaginiamo o ci ricordiamo della bellezza”.
Pierpaolo Piccioli
L’insieme dei circa sessanta look è esattamente così: un tributo alla bellezza della couture storica che non è didascalia o citazione, ma un punto di partenza che porta da tutt’altra parte. Il lavoro d’atelier è sbalorditivo: tutto è volume, delicatezza, colore, preziosità. È un teatro dove la tradizione incontra il glamour, l’invenzione la modernità. È come vedere gli insiemi di ballo di Pina Bausch, performance in cui un movimento qualunque, un gesto quotidiano diventano più potenti e più significativi di una pirouette o di un plié. Le pieghe trattenute, i plissé nascosti che diventano nuvole di seta, le cascate di paillettes color smeraldo, gli alveari di cashmere double, le decine di metri di satin che sembrano leggeri come una folata di vento, non hanno quindi la supponenza della sartoria ma l’inconsistenza dei sogni. Di più: trasformano l’eleganza in gesti naturali, in attitudine contemporanea. Ed è questo, forse, il grande pregio di Piccioli: aver ridato libertà al glamour e alla bellezza della couture senza lasciarla nel passato. Anzi: provando a scrivere nuovi capitoli e nuove direzioni per il suo significato.
Fonte: Repubblica.it